“Le operazioni di rifattorizzazione del codice sono chiamate a rivelarne la complessità nascosta e a rimediare alla sua degradazione nel tempo e nella scala. Così, il refactoring del software è chiamato ad una pratica arrischiata quanto vitale, al contempo indesiderata e inevitabile. Preservare la familiarità umana con un codebase ingigantito da servizi e applicazioni riducendone la complessità non necessaria ed aumentandone la performatività operativa senza svegliare bug dormienti. In qualche misura, è esperienza ed esercizio di introspezione macchinale, insieme confessionale e penitenziale. Dunque, questa ristrutturazione del codice esistente (il re-factoring) si fa carico della leggibilità degradante della scrittura-fabbrica vivente del mondo. Più filosoficamente, il refactoring avverte e affronta il rischio della programmazione (coding) come scrittura degradabile e indecifrabile del mondo. Saper leggere questa (degrazione della) nuova scrittura vivente del mondo, allora, richiederà uno sforzo di simulazione ingegneristica tanto quanto di speculazione filosofica” (Accoto 2020)