“Nell’idea originaria, uno smart contract è immaginato come un patto fatto atto, un negoziato trasposto da codice, un impegno oggettivato in cosa. Nelle parole di Nick Szabo, suo inventore, è un reified contract, un accordo cosificato. Filosoficamente, diremmo che è una contrattazione che diviene contrattuazione. Un incarnato embrionale, sorprendente e inverante, dunque, della contr-attualità. È un codeject, un oggetto-codice, per usare il neologismo dei filosofi digitali. Scritto in linguaggi di programmazione generali o particolari (come Ivy, Solidity, C++, Go, Java, Node.js, Python, Kotlin e diversi altri), pubblicato su piattaforme blockchain varie (quali ad esempio Bitcoin, Ethereum, Fabric, Neo, Quorum, Cardano, EOS, R3, Corda tra le altre) con meccanismi di consenso e governo plurimi (proof-of-work, proof-of-stake, delegated proof-of-stake, byzantine fault tolerance, practical byzantine fault tolerance, raft e varianti di questi), uno smart contract è un oggetto digitale, replicato e distribuito, sessile per costituzione e vagile nell’intenzione. Ancorato alla catena dei blocchi (archivio), attende il tempo degli eventi (oracolo) per il cambio di stato del mondo riducendone i costi di monitoraggio, ambiguità, opportunismo e coordinamento …” (Accoto 2019, continua)