“Le operazioni di rifattorizzazione del codice sono chiamate a rivelarne l’intricatezza nascosta e a rimediare alla sua degradazione nel tempo e nella scala. Speculativamente e operativamente il refactoring del software è una pratica arrischiata e vitale, indesiderata e inevitabile al tempo stesso. È evocata a preservare la familiarità umana con un codebase ingigantito da servizi e applicazioni riducendone la complessità non necessaria ed aumentandone la performatività (senza mettere a rischio il suo funzionamento, ad es., svegliando bug dormienti tra milioni di linee di codice). In qualche misura, è esperienza ed esercizio di introspezione macchinale, insieme confessionale e penitenziale. Questa ristrutturazione del codice esistente (il re-factoring), dunque, si fa carico della leggibilità degradante della scrittura/fabbrica vivente del mondo. Più filosoficamente, il refactoring avverte e affronta, dunque, il rischio della programmazione (del coding) come scrittura degradabile e indecifrabile del mondo. Saper leggere questa (degrazione della) nuova scrittura vivente del mondo richiederà uno sforzo di simulazione ingegneristica tanto quanto di speculazione filosofica” (Accoto 2021)
